ORDINARE PRESBITERI UOMINI SPOSATI IN AMERICA LATINA?

 

Mauro Castagnaro

 

Nell’aprile del 2014, discutendo con dom Erwin Krautler, vescovo oggi emerito dello Xingu (la più grande circoscrizione ecclesiastica del Brasile, di 368.000 kmq, con 800 comunità e 27 preti), su come risolvere il problema della stragrande maggioranza delle comunità cattoliche dell’Amazzonia, che celebrano l’eucaristia solo due o tre volte l’anno a causa della scarsità di clero, papa Francesco si è riferito alle centinaia di diaconi indigeni sposati della diocesi messicana di San Cristóbal de Las Casas, che già guidano le proprie comunità e cui manca solo l’ordinazione presbiterale per poter presiedere anche la Messa, e alle “tesi interessanti” di mons. Fritz Lobinger, vescovo emerito di Aliwal, in Sudafrica, che propone di ordinare equipe di viri probati[1] come “preti di comunità”, in qualche modo ripristinando la distinzione esistente nella Chiesa primitiva tra presbiteri “paolini” (come Paolo celibi, itineranti e fondatori di comunità) e “corinziani” (sposati, stanziali e responsabili di comunità come gli anziani della Chiesa di Corinto). Quindi ha aggiunto che le conferenze episcopali dovrebbero accordarsi su proposte di riforma, facendo intendere che la Santa Sede le approverebbe[2]. Subito la Conferenza nazionale dei vescovi del Brasile (Cnbb) ha messo al lavoro un’apposita commissione[3].

In America latina la questione è stata posta più volte nell’ultimo mezzo secolo, a partire da esigenze pastorali differenti (comunità private dell’eucaristia dalla scarsità di clero, più completa articolazione ministeriale delle comunità, inculturazione della fede nelle tradizioni indigene e costruzione di Chiese autoctone, ecc.), ma con esiti notevolmente convergenti in termini di proposte.

 

 

UN EXCURSUS STORICO

1. Dom Koop e dom Mesquita Filho al Concilio

Il punto di partenza non può che essere la mozione formulata al Concilio Vaticano II da dom Pedro Paulo Koop, vescovo di Lins, in Brasile, durante la discussione del futuro decreto Presbyterorum Ordinis. Secondo dom Koop “per salvare la Chiesa nelle nostre regioni latinoamericane bisogna introdurre al più presto tra noi un clero coniugato e reclutato tra eccellenti uomini sposati”. Di fronte “all’incremento demografico e agli attacchi dell’ateismo, delle sette e della grandi religioni non cattoliche” egli, infatti, riteneva necessario spettasse alle Conferenze episcopali, col consenso del pontefice, “conferire il sacro ordine del presbiterato a laici idonei, sposati da almeno 5 anni. Preparati al sacerdozio durante un periodo non eccessivamente lungo, esercitino con semplicità il ministero pastorale a titolo di supplenza e di aiuto, non a pieno tempo, ma nel tempo libero, presiedendo almeno le comunità più piccole”[4]. L’intervento non fu letto in aula poiché Paolo VI, con una lettera al card. Eugène Tisserant, aveva affermato di non ritenere opportuna una discussione pubblica sul celibato, ma apparve sul quotidiano francese Le Monde il 12 ottobre 1965. La petizione, quindi, era frutto della preoccupazione per lo scarso accompagnamento pastorale in vaste aree del paese a motivo dell’assenza di clero. Quasi contemporaneamente, il 10 ottobre, anche dom  Francisco Austregésilo de Mesquita Filho, vescovo di Afogados da Ingazeira, nel Pernambuco, presentò un documento analogo alla Segreteria del Concilio[5]. Mentre dom Koop chiedeva di ordinare “viri probati“, egli sollecitava quella di diaconi sposati, insistendo soprattutto sulla distinzione tra vocazione al presbiterato e al celibato, giacché potevano alcuni riconoscere il carisma celibatario senza sentirsi chiamati al ministero presbiterale e, viceversa, esistere zelanti preti che non si ritenevano vocati al celibato, per cui auspicava una libertà di scelta. Di fatto queste due opzioni (ordinare preti diaconi o laici sposati) hanno continuato in seguito a coesistere, esprimendo di volta in volta i vari autori la preferenza per una o per l’altra, ma spesso non venendo presentate in alternativa.

 

2. Preti sposati per garantire l’eucaristia

Nel 1969 l’assemblea generale della Cnbb approvò a maggioranza di due terzi la richiesta di sottoporre alla Santa Sede la proposta di “ordinare presbiteri uomini sposati”, confermata due anni dopo dalla Commissione rappresentativa, “secondo le necessità pastorali, in base al giudizio della Conferenza, con l’approvazione della Santa Sede”, e alla vigilia del Sinodo dei vescovi del 1971, dedicato al “sacerdozio ministeriale e la giustizia nel mondo”, un’inchiesta realizzata dal Consiglio episcopale latinoamericano (Celam), in 17 paesi rivelò che un’ampia maggioranza del clero (con percentuali oscillanti tra il 60 e l’82 per cento) era favorevole a questa ipotesi (nonché alla revisione della disciplina del celibato così da renderlo opzionale e alla reintegrazione dei preti sposati nell’esercizio del ministero), a motivo essenzialmente “dell’immensa necessità di sacerdoti che ha il nostro continente”. Anche il documento approvato dalla IV Riunione Interamericana dei vescovi del Celam alla viglia del Sinodo vedeva con molta simpatia la possibilità di ordinare uomini sposati: “Si aprirebbero in questo modo le porte a un’esperienza che, oltre a essere arricchente per la Chiesa, sembra rispondere alle attuali esigenze di molte comunità dell’America latina”. Della proposta si fecero latori al Sinodo soprattutto gli episcopati di Antille, Bolivia, Brasile e Perù. Ma senza esito, nonostante lo schema preliminare De sacerdotio ministeriali inviato dal Segretariato del Sinodo alle Conferenze episcopali di tutto il mondo contenesse un paragrafo dedicato alla “Eventuale ordinazione di uomini sposati” che si domandava se se non si potessero ordinare uomini sposati di età matura, nei paesi in cui vi sia scarsità estrema di preti, aggiungendo che tale eventualità meritava uno studio approfondito perché interessava tutta la Chiesa[6]. Durante l’assise, tuttavia, vennero messe ai voti due formulazioni alternative, entrambe riportate nel Documento finale. La prima, che affermava: “Fatto sempre salvo il diritto del Sommo Pontefice, l’ordinazione presbiterale di uomini sposati non è ammessa neppure in casi particolari”, ottenne 107 voti su 198, mentre la seconda, che sosteneva: “Compete unicamente al Sommo Pontefice, in casi particolari, per necessità pastorali, tenendo presente il bene della Chiesa universale, concedere l’ordinazione presbiterale di uomini sposati, naturalmente di età matura e vita esemplare”, ne raccolse 87, contandosi anche due astensioni e due schede nulle.

Nel 1973, al convegno internazionale su “Les nouvelles formes de ministère dans l’Eglise”, promosso a Lovanio dall’associazione Pro Mundi Vita, dom Tiago Cloin, vescovo di Barra, dopo aver raccontato come la diocesi, che all’epoca copriva 120.000 chilometri quadrati e contava 350.000 cattolici, serviti da 16 preti, per due terzi stranieri, avesse promosso lo sviluppo delle comunità cristiane attraverso il riconoscimento di molti ministeri non ordinati e celebrazioni domenicali senza prete con la comunione distribuita da un laico, osservava che “quando le comunità chiederanno che la celebrazione completa dell’eucaristia possa aver luogo tra loro più spesso di quanto accada oggi (al massimo una o due volte l’anno)”, prenderà “inevitabilmente corpo l’idea di un nuovo tipo di prete”, di cui delineava i tratti essenziali: “Come regola generale apparterrà alla classe sociale dei piccoli agricoltori, dei bottegai o dei funzionari esecutivi; continuerà a esercitare la propria professione civile. Così potrà provvedere al proprio mantenimento senza essere a carico della sua comunità. Di conseguenza non eserciterà la sua funzione presbiterale a tempo pieno. Agli occhi della comunità dovrà aver fornito prove della sua perseveranza e maturità nella vita cristiana. Quindi sarà anche un uomo sposato; infatti solo eccezionalmente tali qualità si ritrovano al di fuori della categoria dei coniugati. E l’insieme dei tratti che abbiamo elencati ci porta a proporre come condizione l’età minima di circa 35 anni. Da lui non si esigerà alcuna formazione superiore, neppure quella che danno le scuole medie, essendogli impossibile riceverla nell’ambiente in cui vive. Né gli si chiederà di essere il tradizionale factotum ecclesiastico che era, e in parte è ancora, l’attuale tipo di prete. Infatti il sistema dei ‘ministeri’ differenziati, ciascuno con la propria responsabilità, deve continuare a funzionare come espressione della responsabilità collettiva di tutta la comunità ecclesiale. Per queste ragioni egli non dovrà aver ricevuto una formazione dottrinale specialistica. Gli basterà aver nella pratica una visione chiara del significato di Cristo nella vita di un cristiano e di una comunità cristiana, del posto che la grande comunità della Chiesa vi occupa attraverso la vita sacramentale e soprattutto l’eucaristia, e avere un senso equilibrato delle esigenze della morale cristiana, soprattutto in materia d’amore per il prossimo e di giustizia. Evitando i pericoli inerenti la posizione del capo nella persona di colui nel quale si concentrano le attribuzioni del potere, egli eserciterà una sorta di governo collegiale in collaborazione con gli altri ‘ministeri’. Suo compito specifico sarà, oltre al contributo nell’amministrazione dei sacramenti, la vigile cura dell’unità della comunità, e in particolare dell’equipe di direzione; egli dovrà essere mediante la sua stessa persona l’espressione, il ‘sacramento’ di tale unità. Circa la sua giurisdizione per il sacramento della Penitenza, il vescovo potrebbe accordargli, in alcune circostanze, per es. la vigilia delle grandi feste liturgiche, un potere di conferire l’assoluzione collettiva nel corso di una celebrazione speciale della penitenza, mentre le confessioni individuali resterebbero riservate ai preti del tipo attuale. Egli sarà ordinato esclusivamente per il servizio della comunità ecclesiale che lo richiede come ministro e non eserciterà tale funzione a livello diocesano. Resterà in funzione solo finché la comunità ecclesiale non ritenga, sulla base di segni ripetuti ed evidenti, che non ha più le capacità fisiche, intellettuali o morali richieste. Questa innovazione non renderà superflui i preti del tipo attuale, che non solo avranno attività da esercitare nei centri più popolosi, ma saranno incaricati anche – almeno alcuni di loro – di formare, insieme a laici appositamente preparati e impegnati a tempo pieno in questo compito, una o più equipe itineranti preoccupate dell’educazione permanente delle piccole comunità ecclesiali e in particolare dei preti di nuovo tipo che vi operano”. Dom Cloin concludeva: “Un nuovo tipo di prete s’impone con imperiosa necessità. Anche tralasciando le regioni economiche e psicologiche (l’isolamento) che esigono un cambiamento, questo è richiesto da questa considerazione: le piccole comunità rurali hanno bisogno di un prete nato e cresciuto nel loro ambiente, scelto dalla comunità locale dei credenti e confermato in questa scelta dall’ordinazione da parte del vescovo. Solo così si possono realizzare le migliori condizioni per l’integrazione e l’identificazione del pastore con le proprie pecore”.

Anche al Sinodo del 1974 su “L’evangelizzazione nel mondo moderno” i brasiliani riproposero la questione: “Constatando l’esistenza di tante comunità e vedendovi l’azione dello Spirito e la dinamicità della Chiesa di Cristo, suggeriamo la necessità di incentivare nuovi ministeri, permettendo loro la celebrazione dell’eucaristia da parte di membri di queste comunità, compresi uomini sposati, ordinati sacerdoti”. La richiesta rimase però, ancora una volta, insoddisfatta, nonostante nel “Panorama delle Chiese dell’America latina”, presentato dal card. Eduardo Pironio, si affermasse che nel continente “lo Spirito Santo preme e suscita vie nuove per cercare e stabilire nuovi ministeri”, tra l’altro “per il moltiplicarsi delle comunità ecclesiali di base. Queste comunità hanno bisogno di ministri della Parola e dell’eucaristia. Si desidera che ordinariamente il ministro sia scelto all’interno della stessa comunità e sia deputato al suo servizio”, per cui “alcune conferenze episcopali pensano alla possibilità di un clero autoctono – sorto da quelle piccole comunità – con una formazione particolare e un adeguato stile di vita”.

Nei decenni successivi la proposta è periodicamente riemersa, per esempio al Sinodo del 1990, dedicato alla “formazione dei sacerdoti nelle circostanze attuali”, per bocca di dom Valfredo Tepe, vescovo di Ilheus – da tempo sostenitore di “un duplice tipo di prete: il prete che ha una propria professione, sposato, e serve solo una piccola comunità, e il prete a tempo pieno, celibe, con una buona formazione, una teologia profonda, per supervisionare tutte queste comunità” – il quale sottolineò che in Brasile ci sono parrocchie anche di 100.000 abitanti per cui molti preti devono celebrare più di cinque Messe ogni domenica: “Lavorano sotto stress e si sentono frustrati perché non riescono a prestare adeguata assistenza pastorale alle loro comunità”[7].

La Cnbb affermò: “Davanti alla situazione di emergenza dovuta alla scarsità di sacerdoti è necessario e urgente sviluppare nuovi ministeri nelle comunità minori che compongono la realtà delle parrocchie. Si devono studiare seriamente, senza paura di tabù, le necessità e possibilità di ordinare sacerdoti per numerose comunità uomini sposati, provati nella fede, che siano presenti e vi lavorino. Tale studio nasce dalle urgenze pastorali, dato che nelle prossime generazioni non si prevedono sufficienti vocazioni autenticamente celibatarie per il servizio pastorale di tante comunità ecclesiali, che corrono il pericolo di cadere sotto le sette perché non possono celebrare l’eucaristia, fonte e centro della vita ecclesiale”. E un numeroso gruppo di vescovi di diversi paesi propose all’assemblea che “uomini sposati che operano come leader naturali di comunità cattoliche potessero essere ordinati al sacerdozio”. Tuttavia Giovanni Paolo II e Benedetto XVI hanno impedito ogni discussione, nonostante nel 1990 dom Aloísio Lorscheider, all’epoca arcivescovo di Fortaleza, in un’intervista a Famiglia cristiana avesse rivelato che in due diocesi del Brasile due viri probati erano stati ordinati preti “con l’approvazione del Papa, a condizione che essi vivano con le loro mogli come fratelli e sorelle. Ma, a causa di questo, ci sono state critiche”[8].

 

3. Clero uxorato per le comunità indigene

Nel frattempo però il problema è tornato a proporsi in varie parti del continente a partire da un altro punto di partenza, cioè l’inculturazione del Vangelo nelle culture indigene, le quali non considerano il celibato un valore, ma un segno di immaturità.

Così, nel 1972 mons. Edward Fedders, vescovo di Juli, nella regione aymara del Perù, scrisse a Roma chiedendo di poter ordinare preti alcuni catechisti indigeni sposati, con alle spalle anni di preparazione all’evangelizzazione ed esperienza pastorale, nonché una vita cristiana e matrimoniale impeccabile. Tra gli aymara, infatti, il celibe è “gente”, ma non “persona”: non può possedere terre, ricoprire cariche comunitarie nè parlare nelle assemblee. Per cui ci si domandò se ci sarebbe stato un numero sufficiente di preti senza l’ordinazione di uomini sposati, se quelli celibi sarebbero stati accettati dalle comunità e se avrebbero dovuto “vivere di sacramenti”. La Congregazione per l’educazione cattolica respinse la proposta adducendo la scarsa “istruzione europea” dei catechisti indigeni, che non li avrebbe messi in condizione di “dimostrare l’assurdità della superstizione di cui è impregnata tutta la vita degli aymara”, paventando l’ordinazione di “presbiteri di seconda classe”, l’impossibilità di “resistere alle pressioni esistenti in altri luoghi per analoghe ordinazioni”, soprattutto nelle periferie urbane povere, e la previsione che “gli aymara ordinati presbiteri, pressati dalle mogli e dai figli, si trasferirebbero in città e creerebbero enormi problemi al clero cittadino”. Gli aymara lamentarono il tono sprezzante ed eurocentrico della risposta di Roma nonché l’assenza di conoscenza della situazione di Juli e di un vero dialogo, rivendicando di essere “colti nella nostra cultura” e domandando: “Che hanno di strano i sacerdoti sposati nella Chiesa? Ne esistono in Oriente; nella cultura aymara il celibe non è ben visto”.

In collegamento con questo progetto mons. Adhemar Esquivel Kohenque, primo vescovo aymara in Bolivia e all’epoca ausiliare di La Paz (cui era affidato un territorio di quasi 18.000 kmq con 429 comunità aymara e 29 preti), nonché presidente del Consiglio delle missioni del Celam, propose lo stesso anno di “creare un sacerdozio secondo il sistema di valori della cultura aymara”, distinguendo tra un “sacerdozio familiare stabile” (con un “prete sposato residente nella comunità che lavori e viva della sua terra come gli altri contadini”) e un “sacerdozio celibe itinerante” (con preti che non dipendano dal loro lavoro né abbiano famiglia per andare da una comunità all’altra per annunciare loro il Vangelo, animarle e coordinarle, sostituendo i preti stranieri o non indigeni)[9]. Ma i dicasteri romani lo dissuasero dal proposito di sottoporre l’idea a Paolo VI. Comunque nel 1978, alla vigilia della III Conferenza generale dell’episcopato latinoamericano, svoltasi a  Puebla, la Conferenza episcopale boliviana risollevò la questione: “Per la continuità del ministero sacerdotale della celebrazione eucaristica con le comunità isolate si era pensato conveniente studiare l’ordinazione di uomini sposati. Però, sapendo che il Santo Padre si riserva tale questione, non si è insistito sul tema, lasciando solo l’inquietudine”.

Intanto nel 1973 mons Leonidas Proaño, vescovo di Riobamba, in una zona quechua dell’Ecuador, per alcuni anni presidente del Dipartimento della pastorale d’insieme del Celam in una conferenza intitolata “Verso nuove forme di ministero”, dopo aver ripercorso l’impegno postconciliare della diocesi “di camminare verso la realizzazione di questo obiettivo: edificare la Chiesa come comunità cristiana”, anche attraverso la trasformazione delle strutture pastorali, affermava: “Ci sforziamo di scoprire, a partire dalla vita e dal Vangelo, quali dovrebbero essere le funzioni e le caratteristiche del sacerdote di domani. Siamo ben consapevoli che la figura sacerdotale che abbiamo ereditato è chiamata a scomparire per cedere il posto a nuove figure. Quali saranno queste nuove figure? Una tra le altre non potrebbe essere quella del sacerdote apostolico che, in compagnia di apostoli secolari, va di paese in paese, come già stiamo facendo, per lanciare la semente del Vangelo e suscitare comunità cristiane? Non potrebbe essere, un’altra, quella dell’uomo incarnato in una comunità, sposato, che si pone a servizio della propria comunità, per evangelizzarla, formarla e celebrare con essa gli avvenimenti salvifici? Non potrebbe ancora essere, una terza figura, quella del cristiano che riceve la missione di servire una comunità, o varie comunità, come apostolo, evangelizzatore, educatore della fede e liturgo, per un tempo determinato della propria vita?”.

Nel 1974 l’Incontro di teologia e pastorale dei ministeri, promosso dal Celam a Quito, confermava “la necessità dell’esercizio del ministero presbiterale in ambienti più ridotti dal punto di vista locale e personale, più radicati in una cultura popolare o indigena e di conseguenza più statici. In questi casi il presbitero come capo della comunità potrebbe sorgere dal seno stesso della comunità, senza alcuna rottura col suo stato sociale e familiare e senza distanziarsi dalla propria cultura e ambiente”.

Allo stesso punto arrivò negli anni ’80 mons. Samuel Ruiz, vescovo di San Cristobal de Las Casas, diocesi per due terzi composta da cinque gruppi etnico-linguistici indigeni (tsotsiles, tzeltales, choles, tojolabales e zoques) dove era stato avviato il più organico processo di costruzione di una “Chiesa autoctona” (secondo i dettati di Ad Gentes n. 6 e 19, cioè con una riflessione di fede, una spiritualità, una liturgia e una ministerialità rispondenti alla loro cultura). Egli più volte rivolse questa richiesta a Roma, spiegando che “dopo 500 anni di evangelizzazione non c’è nel continente una sola Chiesa autoctona perché mancano sacerdoti indigeni. Ci sono indigeni ordinati, ma sono ormai preti occidentali, perché sono passati da un processo di transculturazione che si chiama Seminario. La Chiesa esige che abbiamo frequentato la scuola superiore e qui a malapena finiscono le elementari. Esige il celibato e nelle comunità indigene essere presbitero (anziano, uomo maturo) significa essere capofamiglia. Un uomo non è adulto se non è sposato. Non si tratta di permettere ai sacerdoti di sposarsi, ma di poter ordinare laici sposati”. L’idea era quella di un presbiterato che rimanesse radicato nella sua comunità durante la formazione, non fosse imposto dall’alto, vivesse come gli altri fedeli, si mantenesse col proprio lavoro, manifestasse quel carisma tipico dell’indigeno che è il servizio alla propria comunità. Mons. Ruiz pensava di ordinare presbiteri i diaconi permanenti indigeni più capaci, responsabili e sperimentati, così conservando, tra l’altro, l’unione tra uomo e donna tanto importante per queste culture. Salvo alcune eccezioni, i candidati erano contadini che avevano fatto solo le scuole elementari; avevano per oltre 20 anni ricevuto una solida formazione biblica, cristologica, in storia della Chiesa, ecc. frequentando i corsi impartiti dai missionari gesuiti e domenicani, ma tali studi mancavano di riconoscimento accademico e non erano stati preceduti dalla scolarizzazione richiesta dai Seminari. I gesuiti però convinsero la loro Università Iberoamericana ad aprire agli indigeni un Baccellierato teologico. Cominciarono a organizzare corsi trimestrali e interregionali cui assistettero 26 candidati, ognuno accompagnato dalla moglie, da un “principal” e da un segretario nominato ad hoc. Essi, chiamati “animatori del cuore” svolgevano intanto il ministero affidato loro dalle comunità tzeltales, quello di coordinare, animare e consigliare i diaconi. Nel 1997 la richiesta formale di istituire un sacerdozio sposato indigeno fu fatto pervenire dalle comunità al Papa tramite il nunzio Justo Mullor. La risposta non è mai arrivata, anche se lo storico franco-messicano Jean Meyer ha scritto che mons. Ruiz gli avrebbe rivelato di essersi sentito rispondere da Giovanni Paolo II testualmente: “Io non posso prendere questa decisione, ma non chiudo il dossier, lo lascio al mio successore”.

Nel libro intervista “Comment les Indiens m’ont converti[10], mons. Ruiz rivelò: “Quando abbiamo chiesto a un cardinale, prefetto della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli, venuto a visitare la nostra diocesi per volontà propria, quale fosse la sua opinione sull’ordinazione di ministri indigeni, si grattò la testa in silenzio per poi dire: ‘Certe domande non si devono porre all’autorità. Non dite che l’ho detto, perché lo dico in segreto, però i vescovi dell’America latina devono realizzare i compiti per i quali il Concilio Vaticano II ha dato loro mandato’. In quel momento eravamo una trentina di vescovi di tutta l’America latina a esser d’accordo per fare insieme un passo avanti. D’accordo con Roma e secondo la responsabilità dataci dal Concilio, eravamo disposti a ordinare sacerdoti indigeni nelle nostre diocesi. Lo stesso giorno, alla stessa ora, in tutto il continente, come un gesto di unità. Ma abbiamo perso quell’opportunità storica, perché alcune comunità non erano ancora mature per questo gesto. Un’occasione perduta, perché ora una ordinazione di questo tipo sarebbe giudicata un gesto di ribellione, non di comunione col sovrano pontefice, con tutta la Chiesa. Pertanto la strada – la tattica – è cambiata. Dobbiamo informare costantemente del processo di formazione di diaconi e ricordare altrettanto costantemente l’esigenza delle comunità di vivere l’eucaristia con ministri emersi dalla loro cultura, non prestati o provenienti da lontano. Ci vorrà tempo e ci saranno tensioni, ma è il mandato del Concilio”.

 

4. La proposta Lobinger

Già nel 1977 il teologo cileno Segundo Galilea poteva dunque riassumere così la questione: “Possiamo prevedere, a partire da quanto si percepisce nelle regioni in cui la scarsità [di clero] è drammatica e dove l’unica alternativa è quella del sacerdote autoctono (regioni indigene e meticce dell’America centrale, l’altopiano di Perù e Bolivia, la regione amazzonica brasiliana), alcune piste per questo sacerdozio. Si profila il presbitero ‘di base’, animatore di comunità, evangelizzatore, proveniente dal suo stesso ambiente rurale  e molto in contatto col popolo. La sua formazione non deve essere accademica-classica (quella attuale) ma quella di un solido cristiano, capace di trasmettere il messaggio del Vangelo, animare la fede dei suoi fratelli e accompagnare la crescita di una comunità eucaristica. Tale presbitero evangelizzatore si situa nelle zone rurali, suburbane e isolate. Per molti casi, in queste aree non si potrà evitare, a breve o piuttosto a lungo termine, l’ordinazione di sposati. Insieme a questo tipo di presbitero, si colloca il coordinatore, ispiratore, itinerante. Ha responsabilità più ampie e una formazione più accademica e teologica, collabora col vescovo nell’orientamento generale e nell’appoggio delle comunità, nell’elaborazione della pastorale diocesana, in compiti più tecnici e sofisticati (studenti, mass media, ecumenismo, ecc.)”.

Negli ultimi anni anche alcuni vescovi latinoamericani, tra cui dom Demetrio Valentini, oggi emerito di Jales, in Brasile, hanno aderito all’idea che mons. Lobinger ha progressivamente precisato in una serie di libri[11] fino ad arrivare alla proposta di ordinare in ogni comunità “squadre di anziani” (Teams of elders). Tale proposta contiene due novità rispetto alle ipotesi precedenti: sposta l’accento dai ministri (viri probati) alle comunità (communitates probatae), dal cui cammino di maturazione e responsabilizzazione dovrebbero emergere figure ministeriali, cui poi sarebbe conferita in contemporanea l’ordinazione, e prevede che l’assunzione del ruolo di leadership nella comunità non debba riguardare singoli individui, ma gruppi di ministri.

La chiave della proposta non sono i viri probati (presentati al Sinodo del 1971 come uomini che avessero dato nel proprio ambiente una testimonianza esemplare di vita familiare e professionale e oggi, nella prospettiva di Lobinger, definite come persone sperimentate e approvate nella vita di una comunità cristiana), ma comunità mature sul piano ministeriale che hanno bisogno di un proprio presbiterio affinché la loro struttura, vita e missione ecclesiali giungano alla pienezza.

Là dove esistesse uno spirito comunitario che conduce i fedeli a strutturarsi in una molteplicità di servizi per rispondere alle proprie necessità e a sentirsi responsabili di provvedere da sé ai diversi ministeri, si tratterebbe, dunque, di ampliarne la gamma, scegliendo alcune persone (uomini o donne) di riconosciuto impegno per ordinarle presbiteri.

I ministri, una volta ordinati nella comunità e per la comunità, formerebbero “equipes presbiterali” al servizio della sua vita e missione, specialmente presiedendo la celebrazione dell’eucaristia. Essi dovrebbero appartenere alla comunità stessa, essere scelti dalla comunità e approvati dall’autorità competente (presbiterio diocesano, con alla testa il vescovo), vivere del proprio lavoro (con costi quasi nulli per la Chiesa), svolgere il ministero a tempo parziale (sufficiente per comunità piccole e vive), avere una formazione adeguata ai propri compiti, ma non necessariamente di livello accademicamente elevato, essere maschi o femmine, celibi/nubili o sposati/e, ma tali da testimoniare i valori cristiani relativi all’affettività e alla sessualità, e distinguersi dagli altri ministri solo per il diverso ministero esercitato: la presidenza dell’eucaristia, attuata mai da soli, ma in gruppo, a turno, quando le comunità lo chiedono.

L’intuizione fondamentale consiste nel pensare tale ministero come servizio alla comunità e non come ordinazione di individui, costituiti sacri perché ordinati. Il suo conferimento non sarebbe per la Chiesa universale, ma per le comunità, che ne chiederebbero a Roma l’introduzione. Tali ministri sarebbero, infatti, sedentari e svolgerebbero il loro ministero nei confini della Chiesa locale. Nessuna Chiesa particolare, locale o nazionale, si sentirebbe obbligata a introdurli (analogamente a quanto stabilito dal Concilio Vaticano II – Lumen Gentium n. 29 – al momento del ristabilimento del diaconato permanente, la cui effettiva introduzione fu lasciata alla decisione delle Conferenze episcopali).

Riprendendo la distinzione della Chiesa primitiva tra missionari itineranti e ministri residenti, questo nuovo tipo di prete non sostituirebbe, ma completerebbe quello attuale (celibe, con formazione accademica nonché dedizione piena ed esclusiva al ministero), che sarebbe al servizio di tutta la diocesi, in un collegamento più diretto col vescovo, e avrebbe come compiti principali la fondazione di nuove comunità, la formazione dei “preti di comunità” e l’accompagnamento delle une e degli altri. Una salvaguardia istituzionale delle vocazioni al presbiterato di dedizione integrale potrebbe essere garantita dalla formazione di “congregazioni religiose” di preti diocesani, i quali già oggi assomigliano de facto a religiosi, per quanto non lo siano de jure.

Ne emerge uno schema triangolare: il vescovo che presiede la diocesi, i presbiteri celibi, itineranti e con una formazione teologica più approfondita, e i ministri ordinati sposati e membri di una comunità locale. I due modelli non competerebbero tra loro perché la suddivisione di compiti migliorerebbe le possibilità di formazione continua e differenziata degli uni e degli altri e favorirebbe nei preti celibi l’approfondimento di una spiritualità dei consigli evangelici.

La proposta, quindi, va oltre la semplice risposta alla carenza di preti, ma fa intravedere un nuovo tipo di comunità ecclesiale di base, che i fedeli assumono esplicitamente la responsabilità di guidare, e reinterpreta la funzione dell’attuale presbitero in vista della formazione della comunità più che della sacramentalizzazione.

Perciò avere “preti di comunità” dovrebbe essere la norma, non l’eccezione. Ogni comunità che possegga gli elementi soggettivi e oggettivi minimi di ecclesialità –  fede, speranza, carità; annuncio e testimonianza della Parola; ministeri ecclesiali adeguati, apertura alla celebrazione dei sacramenti, coscienza della missione – deve poter accedere alla propria piena costituzione, essendo dotata di presbiteri a essa adeguati. L’ordinazione di “preti di comunità” non dovrebbe quindi essere limitata a poche persone (come nella proposta dell’ordinazione di viri probati), ma a un certo numero di comunità (quelle “probatae”).

 

5. Comunità senza eucaristia

Il documento finale della V Conferenza generale dell’episcopato latinoamericano, svoltasi ad Aparecida nel 2007, lamenta che “il numero insufficiente di sacerdoti e la sua distribuzione non equilibrata rendono impossibile a moltissime comunità partecipare regolarmente alla celebrazione dell’eucaristia. Ricordando che l’eucaristia fa la Chiesa, ci preoccupa la situazione di migliaia di queste comunità private dell’eucaristia domenicale per lunghi periodi di tempo” (n. 100e) e afferma che “senza una partecipazione attiva alla celebrazione eucaristica domenicale e nelle feste di precetto non esisterà un discepolo missionario maturo” (n. 252). Il problema, quindi, resta aperto, come ha ricordato la Lettera del I Incontro della Chiesa cattolica nell’Amazzonia legale, tenutasi nel 2013: “Diventa urgentemente necessario creare nella nostra Chiesa strutture affinché quel 70% delle comunità oggi escluse dalla celebrazione eucaristica  domenicale possano partecipare alla ‘frazione del pane’ (At 1,42)”[12]. E secondo dom Edson Tasquetto, vescovo di São Gabriel da Cachoeira, l’unica diocesi brasiliana a maggioranza indigena, creare una Chiesa con un proprio volto in Amazzonia, implica, prima di tutto “valorizzare i leader indigeni. Per esempio, ci sono quasi 500 comunità sparse lungo i fiumi, che i preti riescono a visitare 3 o 4 volte l’anno, ma a presiedere la liturgia domenicale e a guidare la catechesi sono leader comunitari, che quando arriva il presbitero presentano i bambini preparati per i sacramenti dell’iniziazione cristiana o gli sposi per il matrimonio. Io vorrei poter dare loro una formazione maggiore, nella speranza che la Chiesa non aspetti troppo ad aprire il presbiterato a uomini sposati, perché abbiamo già diaconi che esercitano il ministero, sono riconosciuti dalle comunità e potrebbero essere ordinati preti. D’altro canto, qui la cultura indigena non concepisce il celibato”[13].

 

FONDAMENTI TEOLOGICI

 

Ragion d’essere della Chiesa è condurre tutte le persone alla comunione di vita col Padre e tra loro, mediante Gesù Cristo, per il dono dello Spirito Santo, attraverso la mediazione visibile della comunità cristiana, in cui esse si realizzano nella loro dignità umana e religiosa.

 

1. Uno sguardo al Nuovo Testamento

Gesù intendeva rinnovare Israele e aprirlo al Regno di Dio. Dopo la sua morte e resurrezione, la comunità dei discepoli, su iniziativa dello Spirito Santo e col protagonismo degli apostoli e di nuove personalità che non avevano conosciuto Gesù, evolvette nella Chiesa per proseguire l’opera del Messia. I “Dodici”, simbolo della raccolta escatologica del popolo di Dio, primi testimoni e predicatori del mistero della salvezza nonché principali responsabili della creazione, dell’unità, dell’autenticità e dello sviluppo delle comunità cristiane, erano anch’essi discepoli del Signore e membri del popolo profetico e sacerdotale, ma sotto l’aspetto pastorale si distinguevano dagli altri perché esercitavano la responsabilità dirigente.

Le prime comunità cristiane avevano carattere volontario, così che chiunque potesse partecipare, erano organizzate su base domestica, il che, oltre a una struttura sociale molto solida, forniva relazioni interpersonali forti, e si caratterizzavano per l’aspirazione a una fraternità universale. Ne derivava una concezione collegiale, comunitaria e di comunione, in cui tutti i membri erano attivi, partecipavano alle decisioni, erano ispirati dallo Spirito e svolgevano un’ampia varietà di funzioni di origine carismatica (apostoli, profeti, maestri, evangelisti, ecc., dove la centralità era assegnata al ministero della Parola per custodire l’apostolicità della fede), poi trasformatisi in ministeri istituzionali. Tra questi spiccava la responsabilità speciale di direzione e servizio affidata a un gruppo di ministri, scelti da e nel popolo, rappresentazione visibile e tangibile del Signore Gesù come polo di unità, per evitare la disgregazione della comunità, e con la specifica incombenza di presiedere l’eucaristia.

Nel Nuovo Testamento è possibile identificare due tipi di responsabili delle Chiese: il missionario itinerante, come l’apostolo Paolo, e i ministri residenti, come i presbiteri per il servizio di ogni Chiesa. Paolo promuoveva un cristianesimo sedentario, basato su comunità locali, che disponevano di diversi ministeri propri, così da non dipendere dai missionari itineranti; si preoccupava della fondazione di nuove comunità, del rafforzamento di quelle già esistenti e dell’espansione della missione; non soggiornava molto tempo in una comunità, ma con tutte manteneva una costante comunicazione (ritornandovi, attraverso lettere o inviando delegati), confidando nella loro capacità di regolare la propria vita con ampia libertà. In questa fase c’erano donne in tutti i ministeri e le responsabilità ecclesiali.

L’elemento sacerdotale e ministeriale impregnava tutta la comunità primitiva e il ministero dei responsabili non poteva servire come pretesto per tiranneggiarla. Siccome Gesù non aveva fissato una struttura ministeriale né stabilito chi, come e quando dovesse essere ministro, le diverse Chiese fecero appello alla proprie tradizioni e alla propria creatività per provvedersene. Dalla testimonianza degli Atti degli apostoli e delle Lettere si ricava che nessuna delle comunità cristiane primitive era priva di una struttura ministeriale, seppure non ovunque identica. Quelle assunte avevano molti punti in comune con quelle ebraiche e romane, ma nuovi erano il modo di intendere l’autorità e l’esigenza che gli incarichi fossero esercitati come servizio. Nello specifico si distinguevano quella della tradizione ebraica, formata da “presbiteri o anziani”, membri di un collegio o corpo con compiti economici, sociopolitici e religiosi, adottata dalla comunità di Gerusalemme, e quella grecoromana, formata da vescovi (prefetti, amministratori) e diaconi, caratteristici delle comunità paoline.

E dato che i pasti in comune, numerosi tra gli ebrei, erano normalmente presieduti dal capo della casa o da un ospite illustre, si può dedurre che pure nella Chiesa primitiva toccasse a chi guidava la comunità (il capofamiglia nella Chiesa domestica), in assenza dell’apostolo o del missionario fondatore, presiedere l’eucaristia. Non era un laico, ma un “ministro” apostolicamente qualificato. I ministeri, dunque, non possono intendersi come un risultato isolato del sacramento dell’Ordine. Al contrario, essi sono nati e si sono sviluppati a partire della Chiesa stessa, da dove poi è sorto il sacramento dell’Ordine.

Quando, verso la fine del I secolo, venuta meno la generazione apostolica, si pose il problema della successione degli apostoli, nel legame coi quali la Chiesa ha sempre individuato la propria origine, ci fu una fusione tra le due correnti ministeriali, da cui sorse l’attuale struttura differenziata: un vescovo che presiede, con un collegio di presbiteri e i diaconi. La triade fu il risultato di una lunga evoluzione durata fino alla seconda metà del II secolo. Si mantenne l’originario modello collegiale, ma l’importanza della figura del presidente del presbiterio, il vescovo, crebbe.

La stretta relazione tra ministero e comunità fu sempre difesa dalla Chiesa antica, venendo in seguito oscurata, ma mai del tutto perduta. Che la comunità abbia ministri propri, compreso quello della successione apostolica nella forma episcopale e/o presbiterale, appartiene alla più antica tradizione ecclesiale, giacché agli esordi del cristianesimo, una volta che un gruppo di persone riceveva il Vangelo dall’apostolo e dal missionario, quella neonata Chiesa locale si organizzava dotandosi dei ministeri di cui aveva bisogno per la propria identità, vita e missione. La norma era che la comunità  locale avesse ministri autoctoni ed essi restassero nelle loro Chiese, tanto che fino alla fine del primo millennio il trasferimento di un vescovo a un’altra città era vietato perché considerato rottura della fedeltà alla Chiesa che lo aveva eletto e le ordinazioni assolute erano dichiarate invalide.

Grande importanza rivestiva dell’ecclesiologia eucaristica: la Chiesa celebra l’eucaristia ed essa determina la Chiesa. L’idea fondamentale era quella della Chiesa come una grande famiglia, congregata attorno a Cristo e riunita dallo Spirito. Non si concepiva un’eucaristia celebrata da ministri senza che fosse presente la comunità né, all’inverso, una comunità senza ministri che presiedessero. Colui che presiedeva la Chiesa doveva presiedere l’eucaristia e viceversa. A volte si lasciava presiedere presbiteri e vescovi invitati che venivano da altre Chiese, così manifestando la fraternità ecclesiale universale. In ogni eucaristia si nominava il vescovo della diocesi, quando non era presente, e il patriarca o il papa che simboleggiava la Chiesa universale. L’eucaristia era molto più di un atto di culto e un sacramento di primaria importanza: rifletteva quello che la Chiesa stessa era. La partecipazione attiva dei fedeli (con preghiere, canti, letture, ecc.) segnalava che tutti si sentivano Chiesa e agivano come tale. L’aspetto collegiale della Chiesa, presieduta dal vescovo e dal collegio dei presbiteri, simboleggiava la comunione ecclesiale. Quando il cristianesimo crebbe e col declino dell’Impero romano il senso comunitario dell’eucaristia, la dimensione collegiale della Chiesa e il protagonismo della comunità si indeboliscono.

Ora, siccome, quindi, le strutture ministeriali sono una creazione della Chiesa, ispirata dallo Spirito, possono cambiare, evolvere e arricchirsi nella storia. Le necessità sociali ed ecclesiali determinano le diverse forme di organizzazione, sempre nel rispetto della struttura fondamentale giuntaci dalla Chiesa primitiva. Così, se in essa il capo della comunità (della Chiesa domestica prima, della Chiesa locale dopo) presiedeva anche l’eucaristia perché non preparare adeguatamente gli animatori delle comunità di oggi e abilitarli sul piano sacramentale, mediante l’ordinazione presbiterale, perché possano presiedere l’azione liturgica?

 

 

 

 

2. La comunità è completa solo col presbitero

Nella Chiesa di Cristo i fratelli sono responsabili gli uni degli altri. Lo Spirito del Signore suscita tutti i doni necessari alla creazione e all’edificazione della comunità. Ogni suo membro riceve il proprio dono a beneficio di tutti e della fraternità. Il presbitero ha il compito di promuovere e conservare l’unità nella pluriformità di doni di vita e servizio, ordinandola, coordinandola e guidandola, e di prendersi cura del popolo di Dio, in nome di Gesù, il buon pastore.

Una comunità è completa sul piano ministeriale, e pertanto pienamente comunità, solo quando è dotata del ministero presbiterale. Questo consiste nella missione di predicare la parola del Vangelo, offrire il sacrificio eucaristico, dirigere e orientare la comunità. La trinità Vangelo-eucaristia-ministero costituisce il nucleo identificativo di ogni comunità cattolica, che la fonda, forma, alimenta e sviluppa. Il presbitero, unito sacramentalmente a Cristo, è l’elemento umano visibile, che realizza, qui e ora, la presenza evangelica ed eucaristica del Salvatore. È il capo della comunità, colui che la riunisce, nutre, orienta e guida, è in essa il segno per eccellenza della presenza di Cristo come profeta, sacerdote e re-pastore. La Chiesa ne ha bisogno come della Parola e dei sacramenti, i quali sono mezzi oggettivi, mentre i pastori lo sono soggettivi. Nella Chiesa che si professa apostolica non può mancare quel ministero che ne garantisce il radicamento negli Apostoli e, attraverso di loro, nel Gesù storico, confessato nella fede Cristo e Signore, il legame con le altre Chiese e con la Chiesa di Roma nell’unica Chiesa.

“Non è possibile che si formi una comunità cristiana se non assumendo come radice e come cardine la celebrazione della sacra eucaristia, dalla quale deve quindi prendere le mosse qualsiasi educazione tendente a formare lo spirito di comunità” (Presbyterorum Ordinis n. 6). Solo il vescovo coi suoi presbiteri possiede il divino potere di consacrare il pane e il vino, trasformandoli nel corpo e sangue del Signore, per noi morto e risorto. È  il prete che convoca, riunisce e presiede l’assemblea eucaristica, centro dell’esperienza religiosa e dell’attività comunitaria, e opera il sacrificio eucaristico, fonte e  culmine della vita cristiana. Lo Spirito del Signore dovrà suscitare in ogni comunità il ministero necessario.

 

3. Non c’è comunità senza eucaristia né eucaristia senza presbitero

L’assioma “la Chiesa fa l’eucaristia e l’eucaristia fa la Chiesa” significa, nella prima parte, che, obbediente al mandato di Cristo, la Chiesa pienamente costituita è la responsabile della celebrazione dell’eucaristia, come propria massima espressione, e, nella seconda parte, che, attraverso l’eucaristia, sacramento dei sacramenti, lo Spirito Santo edifica la Chiesa. Se, da una parte, il corpo di Cristo che è la Chiesa fa l’eucaristia, dall’altra, l’eucaristia, che è il corpo di Cristo, fa la Chiesa. Questa logica è iscritta nella dinamica liturgica: la Chiesa supplica il Padre che invii lo Spirito Santo, affinché questo muti il pane e il vino nel corpo e nel sangue di Cristo, e, a sua volta, lo Spirito trasformi chi riceve la comunione nel Corpo di Cristo.

La comunità cristiana raggiunge la pienezza ecclesiale solo quando celebra l’eucaristia e può celebrare l’eucaristia solo quando è dotata di un ministero almeno presbiterale che garantisce l’apostolicità della Chiesa. Il celebrante del memoriale eucaristico è, infatti, l’assemblea dei discepoli di Gesù, la quale però realizza la propria identità comunitaria, e non di somma di singoli individui, se è presieduta da colui o coloro che sono ordinati per tale servizio ecclesiale. Nessuna comunità, in assenza del pastore, può celebrare validamente l’eucaristia. Secondo la più antica tradizione della Chiesa, chi presiede la comunità presiede anche l’eucaristia, e non viceversa. I ministri non ordinati, tuttavia, non possono presiedere la celebrazione eucaristica.

La tradizione cattolica ha sempre sottolineato che “la comunione è gerarchica”, cioè che la fraternità e uguaglianza di tutti i cristiani deve essere accompagnata dall’esistenza di ministri locali che presiedano Chiesa ed eucaristia. Non basta una comunione carismatica in cui chiunque possa svolgere un ministero, ma bisogna conservare l’eredità ministeriale che proviene dalle origini della Chiesa. Il presbitero che preside l’eucaristia ha una funzione di guida pastorale nelle comunità e serve come istanza di unione tra la Chiesa locale in cui vive e la Chiesa diocesana cui appartiene. Il suo vincolo con la comunità e per la comunità, all’interno di una diocesi e di una parrocchia, può fare della Chiesa locale una “comunità di comunità” (Documento di Santo Domingo n. 58, Documento di Aparecida n. 99e, 309).

In questa luce l’impossibilità oggi di una celebrazione piena, frequente e normale dell’eucaristia nella Chiesa locale non intacca solo il mandato del Signore e presuppone una carenza liturgica, ma ha anche implicazioni ecclesiologiche. L’esistenza di comunità senza ministri ordinati attenta contro la dimensione sacramentale e ministeriale, comunitaria e di comunione locale e universale della Chiesa (oltre a facilitarvi il proselitismo delle Chiese fondamentaliste).

Da questo punto di vista, le Celebrazioni domenicali della Parola in cui ministri laici distribuiscano la comunione consacrata altrove o in un altro momento eludono l’indispensabile necessità della presenza reale e fisica, in questa concreta comunità cristiana, dell’altare affinché qui e ora si renda ancora presente il sacrificio della croce, al quale i fedeli possano unirsi in oblazione al Padre, attraverso Cristo. Per quanto laici, religiose o diaconi organizzino la comunità in modo fiorente dal punto di vista umano e sociale, se in essa fosse assente il sacrificio eucaristico, manca la fonte e l’apice della vita cristiana.

Si tratta, dunque, di scegliere tra comunità edificate dall’eucaristia e comunità per la cui edificazione l’eucaristia non svolge un ruolo rilevante.

 

4. Serve un nuovo ministro ordinato da affiancare all’attuale figura di presbitero

Se per essere pienamente costituita e celebrare l’eucaristia la comunità cristiana ha, quindi, bisogno anche del ministero presbiterale, è suo diritto disporne e dovere del vescovo, per mandato divino e precedente a qualunque legislazione ecclesiastica, ordinare pastori in quantità sufficiente per attendere alle legittime esigenze  dei battezzati.

Il problema della scarsità di preti e, quindi, dell’impossibilità di celebrare l’eucaristia domenicale e adempiere il mandato del Signore di farlo “in mia memoria” in moltissime comunità è in alcuni paesi cronico e secolare, e non ci sono prospettiva che venga superato a breve o medio termine. In questo caso, le comunità devono ricorrere ai servizi di un ministro ordinato, che, per quanta disponibilità abbia di inserirsi nella comunità, data l’estensione delle parrocchie e il volume del lavoro da svolgere, può essere presente raramente e rimane, in gran misura, un estraneo alla vita dell’assemblea. Ma una celebrazione rarefatta dei sacramenti porta all’evaporazione del loro significato. I tentativi di risolvere il problema attuati finora (promozione delle vocazioni presbiterali secondo il modello attuale, migliore distribuzione dei preti, introduzione della celebrazione domenicale della Parola di Dio, restaurazione del diaconato permanente, delega a laici e laiche di compiti prima esclusivi dei ministri ordinati, ecc.) sono insufficienti o inappropriati. Ma la Chiesa, che è sacramento di vita, può e deve assumere collettivamente tale carenza e fare di tutto per risolverla.

Secondo l’Istruzione su alcune questioni circa la collaborazione dei fedeli laici al ministero dei sacerdoti del 1997, “il sacerdozio ministeriale è pertanto assolutamente insostituibile. (…) Ogni altra soluzione per far fronte ai problemi derivanti dalla carenza di sacri ministri non può che risultare precaria” (n. 3). L’affermazione, indiscutibile sul piano teologico, dal punto di vista storico, pratico e pastorale non dovrebbe condurre a un unico modello di ministero diaconale, presbiterale ed episcopale. Una di queste configurazioni storiche è l’ordinazione presbiterale dei viri probati.

La triade vescovo-presbitero-diacono come tale non può essere considerata d’istituzione divina: il Concilio Vaticano II la presenta come data ab antiquo e non jure divino, sfumando così la più indifferenziata definizione tridentina, che parlava di una gerarchia dei ministeri ordinatione divina instituta. Il Concilio di Trento, infatti, stabiliva nel canone 6 che nella Chiesa esiste, per disposizione divina, una gerarchia, nel senso di subordinazione di grado nel potere sacro, costituita da vescovi, presbiteri e ministri (i diaconi, ma senza escludere gli ordini minori). Lumen Gentium (n. 28), invece, non si parla di “gerarchia”, ma di “ministero ecclesiastico”, i “diversi ordini” (non si dice “gradi”) sono ricondotti a un “esercizio” storico, che risale all’epoca “antica” (senza appellarsi direttamente a Cristo). Il problema della distinzione dogmatica tra i ministeri di vescovo e  presbitero resta aperto.

Se questo vale per i diversi ordini – all’interno del ministero ordinato – a maggior ragione dovrebbe valere rispetto ad altre determinazioni poste, nei secoli dalla Chiesa come condizione sine qua non per l’ordinazione. Se la Chiesa ha avuto la libertà, dentro precise circostanze storiche, sociali e culturali, di conformare il ministero apostolico in tre ordini, perché non potrebbe anche oggi, di fronte all’enorme carenza di presbiteri – presbiteri possono essere sostituiti solo da presbiteri, diceva Giovanni Paolo II – modificare, almeno in via eccezionale, le condizioni di accesso al ministero presbiterale, in modo che esso si diversifichi al proprio interno e un numero maggiore di ministri ordinati possa meglio servire le comunità? Perché ciò che era norma al tempi del Nuovo Testamento (cfr. 1Tim 3, 2-7; Tt 1, 6-9) è diventato in seguito nella della Chiesa latina a tal punto condizione escludente dall’ordinazione presbiterale che oggi – perfino davanti alla carenza a volte cronica, a volte crescente di presbiteri, con grave pregiudizio per la vita cristiana ed ecclesiale di milioni di fedeli e migliaia di comunità – non possa e non debba essere tenuta in considerazione? Non sarebbe pensabile farlo su richiesta di vescovi singoli o a gruppi, in via sperimentale? Perché certe Chiese cattoliche orientali possono mantenere un clero celibatario e uno uxorato e la Chiesa latina deve avere solo il primo?

Qual è il valore più importante da conservare e difendere: l’edificazione piena della comunità o determinate qualificazioni contingenti e convenienti dei ministri ordinati? La celebrazione o meno domenicale dell’eucaristia in tutte le comunità o il mantenimento integrale di alcune esigenze non essenziali per il ministero ordinato? Se nella Chiesa primitiva e per secoli fu legittimo lo sposalizio tra ministero e determinate qualificazioni dei ministri (formazione non accademica, scelta da parte del popolo, matrimonio, ecc.) perché – per il bene della Chiesa e in vista della salvezza delle anime, legge suprema – non fare un salto indietro, alle fonti, per compiere un passo avanti?

Se il celibato autentico è un carisma, lo è anche il ministero. E se il celibato è conveniente per il ministero, il ministero è essenziale per la Chiesa. Ciò che è conveniente in un contesto può non esserlo in un altro, ma ciò che è essenziale è sempre indispensabile. Non si tratta di sopprimere il celibato, ma solo di adeguare la legge alle nuove circostanze in vista di un bene maggiore del celibato stesso, cioè la vita comunitaria, figura della comunione trinitaria, origine, forma e meta della stessa Chiesa.

Bisogna cambiare il modello del ministro ordinato e modificare la struttura ministeriale delle parrocchia, ordinando presbiteri uomini sposati (viri probati), cioè persone di lunga e intensa vita cristiana, ecclesiale e comunitaria, già al servizio della comunità, o equipes (uomini e donne, sposati/e e celibi/nubili della comunità) responsabili della liturgia. Più che di numero o di preti è questione di comunità, capace non solo di generare nuovi cristiani mediante il battesimo, ma di suscitare nel proprio seno persone capaci di diventare servitori “ministri” e pastori. La diversità tra i “preti di comunità” e quelli attuali, in particolare il fatto che nessuno di loro renderebbe servizio come capo individuale di una comunità cristiana, ma opererebbe sempre in gruppo, dovrebbe permettere anche alle donne di accedere a questo ministero.

D’altro canto il divieto di ordinare uomini sposati nella Chiesa latina è del 1610, ma per più di un millennio i presbiteri del clero latino furono in maggioranza sposati, padri di famiglia e con un lavoro che li aiutava nel sostentamento della propria vocazione, a parte le entrate proprie del ministero, con uno stile di vita molto simile a quello dei laici. Erano membri permanenti della loro comunità locale e, siccome non esistevano centri di formazione né seminari, si preparavano imparando direttamente il ministero dai preti più anziani. La differenza fondamentale di stile di vita era quella dei monaci presbiteri che vivevano in un monastero, mentre inizialmente i chierici neppure si vestivano diversamente dai laici.

 

5. La questione del celibato

Il Nuovo Testamento non stabilisce nessun nesso essenziale tra matrimonio e celibato, da una parte, e ministeri ecclesiali, dall’altro, né esprimono a tal proposito preferenza o imposizione relativa a questo o quello stato di vita. Lasciano piena libertà di scelta. Gesù optò per lo stato celibatario. Scelse però intimi collaboratori tra uomini sposati. Paolo preferì per sé, ma solo consigliò ad altri, nelle sue condizioni, che restassero celibi per potersi dedicare più liberamente all’attività missionaria.

Il Decreto sul ministero e la vita dei presbiteri Presbyterorum ordinis del Concilio Vaticano II dichiara (n. 16) che “la perfetta e perpetua continenza per il regno dei cieli”, pur “raccomandata da Cristo Signore” e sempre “considerata dalla Chiesa come particolarmente confacente alla vita sacerdotale”, “non è richiesta dalla natura stessa del sacerdozio, come risulta evidente se si pensa alla prassi della Chiesa primitiva e alla tradizione delle Chiese orientali, nelle quali, oltre a coloro che assieme a tutti i vescovi scelgono con l’aiuto della grazia il celibato, vi sono anche degli eccellenti presbiteri coniugati”. L’origine dell’obbligo del celibato va ricercata nella legge ecclesiastica (“il celibato, che prima veniva raccomandato ai sacerdoti, in seguito è stato imposto per legge nella Chiesa latina a tutti coloro che si avviano a ricevere gli ordini sacri”), non per motivi di purezza liturgica o di svalutazione del matrimonio e della sessualità, ma per ragioni positive di ordine teologico, spirituale e pastorale, come la totale consacrazione a Cristo, la maggiore libertà per svolgere il lavoro apostolico, ecc.: col celibato “i presbiteri si consacrano a Dio con un nuovo ed eccelso titolo, aderiscono più facilmente a lui con un cuore non diviso, si dedicano più liberamente in lui e per lui al servizio di Dio e degli uomini, servono con maggiore efficacia il suo regno e la sua opera di rigenerazione soprannaturale”, “proclamano di fronte agli uomini di volersi dedicare esclusivamente alla missione di fidanzare i cristiani con lo sposo unico”, “diventano segno vivente di quel mondo futuro, presente già attraverso la fede e la carità, nel quale i figli della risurrezione non si uniscono in matrimonio”. E l’enciclica di Paolo VI Sacerdotalis Caelibatus del 1967 riconosce, dunque, la distinzione tra il carisma della vocazione presbiterale e quello che conduce alla scelta del celibato (n. 15), affermando di conseguenza che la relazione tra i due carismi è solo di convenienza (n. 17), sia pure sempre definita “molteplice”, “somma”, “alta”, “certa” e “intima” (n. 18, 31, 35, 40 e 60). Così molti chiamati al celibato non lo sono al presbiterato, basti pensare ai monasteri e alle case degli ordini religiosi non clericali.

Oggettivamente gli stati di vita coniugale e celibatario, sotto l’aspetto del “valore cristiano”, sono perfettamente uguali davanti alla perfezione dell’amore per Dio e gli uomini. Matrimonio e celibato ricevono il loro valore dalle intenzioni, dai motivi e dai propositi delle persone cristiane che li assumono e dal giudizio circa l’utilità e i vantaggi rispetto a una determinata funzione o un determinato incarico. Perciò non si possono paragonare. Ognuno ha la sua forma di amore e comunione, di presenza e servizio.

L’esercizio del ministero non esige necessariamente che il pastore viva una vita coniugale o in stato celibatario. Nessun valore umano e cristiano è estraneo a questi stati di vita o, se presente nel celibato è assente nel matrimonio e viceversa. Esistono, invece, differenze di forme e accenti, di limiti e liberazioni, di vantaggi e svantaggi rispetto a questo o quel tipo di attività, incarico, missione, responsabilità. Entrambi hanno pro e contro rispetto al ministero pastorale, alla pluriformità del suo esercizio e alle categorie di persone tra cui esso si deve esercitare.

Si tratta, dunque, di rendere giustizia allo stato coniugale, alla pari di quello celibatario, di fronte al presbiterato. Il primo è condizione ugualmente degna e positiva per il ministero pastorale e offre condizioni per autentiche vocazioni presbiterali. A servizio della predicazione evangelica esso testimonia valori del Vangelo che non sono messi in risalto dallo stato celibatario; e questo, a sua volta, ne testimonia altri non evidenziati dal primo. Il prete sposato, per esempio, è nelle migliori condizioni per inserirsi nei problemi attuali delle famiglie cristiane.

Il ministero pastorale di uomini sposati, inoltre, ha nel mondo di oggi un valore di segno, soprattutto per enfatizzare la dignità del matrimonio cristiano. L’accettazione dell’ordinazione di viri probati, i quali potessero, tra l’altro, esibire una vita coniugale e familiare esemplare, smentirebbe l’impressione – erronea, ma diffusa – che matrimonio e ministero presbiterale siano per natura incompatibili e che il primo non sia un dono di Dio tanto quanto il celibato. L’esaltazione del celibato a scapito dello stato coniugale suggerisce, infatti, che quest’ultimo rappresenti un valore minore in relazione all’ideale della perfezione cristiana e dell’amore divino perfetto.

Un’apertura al presbiterato degli uomini sposati, infine, sganciando il ministero dall’obbligo del celibato, valorizzerebbe quest’ultimo come frutto di specifica scelta, manifestazione della presenza e dell’azione dello Spirito nella Chiesa, capace di suscitare, al di là delle nostre leggi, quella libera donazione a Dio, recuperando tutta la propria forza di segno del regno di Dio, segno liberamente accettato e vissuto, nel seno della comunità cristiana che deve suscitarlo e sostenerlo.

 

RAGIONI PASTORALI

 

Molti motivi sono stati addotti negli scorsi decenni per giustificare la proposta di ordinare uomini sposati al ministero presbiterale: l’esempio di Gesù che scelse gli apostoli anche tra uomini sposati, la tradizione apostolica, che continua nelle Chiese d’Oriente, l’esperienza positiva delle Chiese cattoliche orientali, la distinzione teologica tra vocazione al presbiterato e carisma del celibato, la scarsità di preti celibi in molte regioni del mondo nonostante la crescita demografica, la mancanza di vocazioni per il sacerdozio ministeriale celibatario, il valore di segno del sacerdozio ministeriale di uomini sposati per sottolineare la dignità del matrimonio cristiano nel mondo di oggi ed evidenziare in modo concreto che non solo il celibato è orientato al Regno,  ecc.

Tre appaiono, in particolare, le ragioni più rilevanti sul piano pastorale:

 

1. Garantire alle comunità cristiane la possibilità di celebrare l’eucaristia domenicale

In America latina esistono migliaia di comunità e milioni di battezzati privati dell’accesso domenicale alla celebrazione eucaristica, fonte e culmine della vita cristiana, a causa della scarsità di clero celibe, il che implica subordinare l’adempimento del mandato divino di “spezzare il pane e bere il calice” al rispetto di una norma ecclesiastica che limita il reclutamento dei candidati, esigendo da loro requisiti non previsti dalla Sacra Scrittura. Per superare questo digiuno forzato si tratta di affiancare a quello attuale un nuovo tipo di presbitero, distinto per compiti e forma di vita, il quale, meglio se agendo in gruppo, si dedicherebbe allo sviluppo della comunità, al cui servizio sta la celebrazione dell’eucaristia. Tale profilo risulta più in sintonia con la sensibilità della società moderna e la presenza di ministri ordinati non clericali in ogni comunità favorirebbe la trasformazione delle parrocchie in “comunità di comunità”, mentre la loro complementarietà coi ministeri laici consentirebbe dinamiche ecclesiali maggiormente all’insegna della comunione, della partecipazione e della collegialità.

 

2. Permettere una più ricca articolazione ministeriale delle comunità

L’ordinazione presbiterale di uomini sposati non dovrebbe essere meramente funzionale a colmare le carenze numeriche di preti celibi, ma permetterebbe di arricchire la comunità cristiana di una nuova figura di presbitero, con caratteristiche, che testimonierebbe valori evangelici complementari a quelli messi in risalto da quello tradizionale, avendo caratteristiche e compiti differenti: il radicamento nella comunità dovrebbe favorirne la conoscenza dei suoi membri, delle loro storie e sensibilità, l’esperienza coniugale dovrebbe accrescerne la capacità di intendere le attese e i problemi della vita familiare, l’esercizio di una professione secolare e la necessità di provvedere al mantenimento proprio e della propria famiglia ne aiuterebbe la comprensione e l’inserimento nella realtà sociale, ecc. Tutto ciò potrebbe facilitare rapporti maggiormente orizzontali e fraterni con gli altri membri della comunità, renderlo più sensibile alla necessità di un annuncio del Vangelo e a una proposta cristiana maggiormente incarnata, agevolarlo in una creatività liturgica orientata a esplicitare meglio sul piano simbolico il vincolo tra celebrazione e vita dei credenti.

 

3. Inculturare la fede nelle tradizioni indigene e costruire Chiese autoctone

La crescente consapevolezza che l’unità della Chiesa cattolica vada intesa in termini non di uniformità, ma di comunione, e della necessità di incarnare la fede nelle diverse tradizioni senza imporre un unico modello culturale ed ecclesiale[14] evidenzia i limiti della romanizzazione dell’Europa (quanto era buono per la Chiesa romana andava esteso a quella europea) e dell’europeizzazione della Chiesa universale, mostrando la necessità di valorizzarne il “volto pluriforme”[15]. La Chiesa di Roma, col Papa alla testa, dovrebbe presiedere e promuovere l’unità di Chiese locali differenti per modelli di ministeri, diritto canonico, teologie e liturgia all’interno della stessa fede. In questa dinamica universalista, decentralizzatrice e favorevole al pluralismo, l’inculturazione del cristianesimo nelle tradizioni indigene dell’America latina esige  l’edificazione di Chiese autoctone dotate di clero proprio, necessariamente uxorato poiché tali culture identificano il passaggio all’età adulta con la creazione di una famiglia e associano maturità e vita matrimoniale, requisito indispensabile per ricevere incarichi comunitari.

 

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[1]L’espressione “viri probati” compare per la prima volta nella Lettera di Clemente ai Corinzi, del 98: gli apostoli “disposero che, alla loro morte, uomini provati – dedokmisasmenoi andres – ricevessero in successione il loro ministero”. Dopo il Concilio Vaticano II “viri probati” è divenuta l’espressione tecnica per indicare gli uomini sposati, testimoni di una vita cristiana matura e provata, possibili candidati all’ordinazione presbiterale.

[2]In un’intervista a IHU-On Line (Denúncia feita ao Papa: “Grupos político-econômicos buscam desconstruir os direitos territoriais dos povos indígenas”. Entrevista especial com Dom Erwin Kräutler – 15/4/2014). dom Krautler ha raccontato così l’incontro: “Il Papa mi ha poi invitato a sedermi. L’ho ringraziato per il privilegio di essere ricevuto in udienza come vescovo dello Xingu, che è più estesa giurisdizione ecclesiastica del Brasile. Nello Xingu ci sono circa 800 comunità e solo 27 sacerdoti. Come in tutta l’Amazzonia, anche nello Xingu, le comunità, per la stragrande maggioranza, hanno accesso alla celebrazione eucaristica domenicale solo due o tre volte l’anno. È molto doloroso per me, come vescovo, convivere con questa realtà. Improvvisamente il Papa mi ha chiesto: «Che ne pensa lei, o qual è la sua proposta in questo senso?». Non mi sarei mai aspettato che il Papa volesse sentire la mia opinione e ho detto: «Non ho una ‘ricetta’ pronta, ma abbiamo bisogno di trovare urgentemente una soluzione affinché la nostra gente non sia più esclusa dall’eucaristia». Il Papa allora ha risposto che c’erano alcune «tesi interessanti», per esempio quella di un tedesco che è stato vescovo in Sud Africa. Si tratta di mons. Fritz Lobinger, che dal 1987 al 2004 è stato vescovo della diocesi di Aliwal. Egli sogna ministri ordinati che appartengono alla comunità e continuano la propria vita familiare e professionale. Il Papa ha ricordato anche una diocesi in Messico, dove, nelle varie etnie indigene, ci sono centinaia di diaconi sposati che esercitano il proprio ministero col proprio popolo e presiedono le loro comunità. Manca loro solo l’ordinazione presbiterale per poter presiedere anche la celebrazione eucaristica. È la diocesi di San Cristóbal de Las Casas, nello Stato del Chiapas”. E al Salzburger nachrichten (Papst will von Bischöfen “künhe Vorschläge” 8/4/2014) ha aggiunto:Francesco ha spiegato che il Papa non poteva prendere tutto in mano personalmente da Roma. Noi vescovi locali, che conosciamo meglio i bisogni delle nostre comunità, dovremmo presentare proposte molto concrete. Dovremmo essere «corajudos», ha detto in spagnolo, che significa coraggiosi, audaci. Un vescovo non dovrebbe muoversi da solo, ha detto il Papa. Le conferenze episcopali regionali e nazionali dovrebbero accordarsi su proposte di riforma. E poi portare queste proposte a Roma”. Il Papa ha fatto intendere così che la Santa Sede le autorizzerebbe. Infatti, alla domanda se ora le riforme della Chiesa dipendano molto dalle Conferenze episcopali, con un esplicito riferimento all’ordinazione di viri probati, dom Krautler ha risposto senza esitazione: “Sì, dopo questo incontro personale col Papa ne sono assolutamente convinto”.

[3]Ne fanno parte il card. Raymundo Damasceno de Assis, arcivescovo di Aparecida, il card. Claudio Hummes, arcivescovo emerito di São Paulo, dom Walmor Oliveira de Azevedo, arcivescovo di Belo Horizonte, e dom Sergio Eduardo Castriani, arcivescovo di Manaus.

[4]Ecco il testo dell’intervento: “Venerabili Padri, fin dall’inizio vi dichiaro qual è il tema di questo mio intervento: per salvare la Chiesa nelle nostre regioni latinoamericane bisogna introdurre al più presto tra noi un clero coniugato e reclutato tra eccellenti uomini sposati, mantenuta ferma, naturalmente, la vigente legge del celibato. I fatti, statisticamente comprovati, rivelano che la Chiesa cattolica retrocede progressivamente nel mondo e in America latina in particolare, di fronte alla smisurata crescita demografica e all’avanzata accelerata dell’ateismo, delle sette e delle grandi religioni non cattoliche. Negli ultimi 250 anni la Chiesa, in rapporto alla crescita demografica, è regredita numericamente dal 30% al 20%. A questo ritmo nei prossimi 200 anni calerà al 10% . In America latina ogni anno la Chiesa perde un milione di anime. In Brasile ogni giorno mille persone la abbandonano. In altri continenti, per esempio l’Africa, la Chiesa smette di convertire milioni di abitanti che altre religioni conquistano a sé e, di certo, per sempre. La maggiore causa di questi fatti risiede nell’assenza di un numero sufficiente di sacerdoti e di vocazioni al sacerdozio celibatario, la qual carenza si aggrava giorno dopo giorno, considerato lo slancio demografico. L’America latina costituisce il 33% della Chiesa universale, ma non arriva a disporre che del 6% dei sacerdoti del mondo. Tuttavia tra poco più di 30 anni, cioè nel 2000, l’America latina conterà 600 milioni di abitanti e costituirà metà della Chiesa cattolica, mancando, come minimo, di 120.000 sacerdoti perché ogni 5.000 fedeli abbiano il loro pastore, senza ancora considerare le enormi superfici che abitano. La nuova disciplina del diaconato ha certamente diminuito, ma non risolve la gravità della situazione. Per ragioni eminentemente pastorali, per salvare la fede di queste moltitudini, per amministrare loro i sacramenti della penitenza e dell’eucaristia, e per ungerli quando gravemente malati, come pure per celebrare la liturgia della Parola di Dio e, in modo particolare, per celebrare il sacrificio eucaristico come culto comunitario a Dio, abbiamo urgentemente bisogno di sacerdoti! Solo il sacrificio eucaristico come cena comunitaria è capace di riunire, educare, nutrire, promuovere e sviluppare le comunità del popolo di Dio, specialmente quelle minori, che sono di base, tra gli abitanti delle regioni rurali e delle dense concentrazioni umane nelle grandi città che, tutti, per mancanza di sacerdoti, muoiono spiritualmente e cadono vittime dell’indifferenza, delle sette e delle superstizioni. È pertanto necessario, e urgentemente necessario, centuplicare il numero dei sacerdoti, già ai giorni nostri, tanto più nel prossimo futuro, per portare la Chiesa agli uomini, incontrarli nelle loro case, giacché sono poche le chiese e la grande maggioranza, per mancanza di sacerdoti e chiese, non riesce più a incontrare né Cristo né la Chiesa. In Brasile, oggi, con 80 milioni di abitanti, 60 milioni di battezzati non sono adeguatamente raggiunti dalla Chiesa per mancanza di sacerdoti, a loro uniti sul piano sociale e comunitario. E come sarà la situazione nel 2000 (tra una sola generazione!) quando il Brasile sarà cresciuto a 200 milioni di abitanti? Ricordatevi, Padri, che per mandato divino, la Chiesa ha il dovere si evangelizzare e santificare! Il popolo di Dio ha il diritto di ricevere la predicazione e di condurre una vita sacramentale. È un vero diritto dato da Dio che nessuna legge umana può cancellare o frustrare e che la Chiesa, per giustizia, deve rispettare! Venerabili padri e zelantissimi pastori, pressato dal mandato divino per la conservazione e la propagazione della fede ci propongo che il presente Concilio apra la possibilità di conferire il sacro ordine del presbiterato a laici idonei, sposati da almeno 5 anni. Preparati al sacerdozio durante un periodo non eccessivamente lungo, una volta ordinati esercitino con semplicità il ministero pastorale a titolo di supplenza e di aiuto, non a pieno tempo, ma nel tempo libero, presiedendo  almeno le comunità più piccole o di base. Questa soluzione è la stessa vigente dai primordi a oggi nelle Chiese orientali, dove ci sono sposati-sacerdoti, di eccellente merito e veramente apostolici! I sacerdoti, presi tra gli uomini sposati, conserveranno il loro stato coniugale, familiare ed economico-sociale, il quale, senza dubbio, conferirà al loro ministero sacerdotale enorme forza di diffusione e convincimento. Dipendendo pienamente dal vescovo, eserciteranno il loro ministero sacerdotale nelle assemblee comunitarie minori o di base, in regime di libero impegno e di tempo libero, sulla base del puro zelo apostolico. Non si modifichi in nulla l’ordinamento esistente. Si introduca solo uno strumento pastorale in più, capace di apportare un radicale rimedio alla nostra desolante situazione religiosa, per oggi e per il futuro prossimo. Non si illudano i vescovi! È in gioco la sorte della Chiesa latinoamericana! La scelta è urgente: o moltiplicare subito il numero di sacerdoti prendendoli tra celibi e sposati o assistere al triste tramonti della Chiesa in America latina! Propongo, pertanto, ai Padri Conciliari che, nel Decreto sul ministero e la vita dei sacerdoti, al numero 14 (oggi 16 – ndr) si aggiunga la seguente frase: ‘Tenendo conto che il numero dei sacerdoti, in regioni estesissime della Chiesa, è del tutto insufficiente e tende a diminuire gradualmente, in virtù dello sproporzionato aumento demografico, questo sacrosanto Concilio, considerando il bene di una grande moltitudine di anime che devono essere salvate in forza del mandato divino, stabilisce. Competerà alle Conferenze episcopali territoriali, di ambito maggiore o minore, decidere, con l’approvazione del Sommo pontefice, se sia opportuno e dove, per il bene delle anime, che possa essere conferito, col consenso del romano pontefice, il presbiterato a uomini di età matura, che vivano, da almeno cinque anni, in stato matrimoniale, secondo le norme tracciate dall’apostolo Paolo nelle lettere a Tito e Timoteo’”.

[5]“Venerabili Padri, lo schema ‘De ministerio et vita presbyterorum‘ è migliore di quello proposto alla nostra discussione lo scorso anno; infatti, viene mostrato meglio il nesso con la Costituzione dogmatica Lumen Gentium e più ampia e approfondita è la sua riformulazione teologica. In generale, dunque, placet, sebbene sia ulteriormente perfezionabile. In particolare, è assolutamente lodevole il numero 14 ‘de consiliis evangelicis in vita presbyteri’ quando esalta l’eccellenza del celibato sacerdotale, in quanto ‘segno e allo stesso tempo stimolo della carità pastorale, nonché fonte speciale di fecondità spirituale nel mondo’. Davvero tra le glorie della Chiesa il celibato rifulge con tale brillantezza che tutti noi convenuti in questo Sacrosanto Concilio non abbiamo potuto che segnalarne sempre più l’eccellenza e il valore. Salva dunque l’eccellenza del sacro celibato, vogliamo anche lodare la precisione e la chiarezza della dottrina dello schema quando afferma che il celibato ‘sebbene non richiesto dalla natura stessa del sacerdozio, come risulta dalla prassi delle Chiese orientali, nelle quali vi sono anche degli eccellenti presbiteri coniugati, è tuttavia sotto molti aspetti conveniente per il sacerdozio’. In realtà ci sono due cose distinte: cioè il sacerdozio e il celibato. Di conseguenza ci sono anche due distinte vocazioni. Certo una può essere aiutata dall’altra, ma non necessariamente né sempre entrambe si ritrovano nello stesso soggetto. Ci sono infatti coloro che hanno la vocazione al celibato, ma in nessun modo si sentono chiamati al sacerdozio. Così, per esempio, non sono pochi quei religiosi che non ricevono il sacro ordine presbiterale, come pure tutti quei laici, che pur vivendo nel mondo, con cuore magnanimo si votano completamente a Dio. Allo stesso modo e per la stessa ragione, ci sono quelli che, chiamati al sacerdozio, tuttavia non hanno la vocazione al celibato, come nel caso dei presbiteri orientali coniugati, i cui meriti infatti sono giudicati eccellenti dal nostro schema. Inoltre tra costoro sono da enumerare anche quei sacerdoti, che, pur esercitando con gioia e generosità di spirito il sacro ministero, tuttavia a malapena o per nulla sono in grado di sopportare il peso del celibato, perché ad esso non sono stati né si sentono in realtà chiamati. Per costoro il celibato più che ‘segno e stimolo della carità’ (purtroppo!) è segno e stimolo del peccato, e più che ‘fonte speciale di fecondità spirituale nel mondo’ (è penoso dirlo!) diventa speciale fonte di scandalo nella Chiesa. Ciò è confermato dal profondo dolore di molti sacerdoti, uomini veramente pii e animati da ardore apostolico, che per molti anni hanno reso alla Chiesa di Dio ottimi servizi, ma hanno abbandonato l’esercizio del sacerdozio, non senza scandalo dell’intera comunità e pericolo di dannazione per loro stessi, proprio perché non avevano la vocazione al celibato. Fatti di questo tipo, crediamo, avvengono in tutte le regioni. Basta aprire gli occhi e vedere. Per non parlare qui del numero ingente di seminaristi, che lasciano il Seminario proprio perché non hanno la vocazione al celibato. Per queste ragioni, venerabili Padri, considerata attentamente la questione davanti a Dio, chiedo di prestare la vostra benevola attenzione e il vostro zelo pastorale sulle due seguenti questioni:

Primo – siano sciolti da tutti gli obblighi assunti nell’ordinazione i sacerdoti che, nonostante la sollecitudine pastorale dei loro vescovi, si sentano incapaci di osservare le esigenze della legge del celibato. Non costringiamoli, vi prego, a causa della nostra incomprensione e indifferenza, a offendere prima Dio col peccato di scandalo, affinché si possano liberare dai pesi che li opprimono. Essendo la legge del celibato una legge ecclesiastica e disciplinare, sia equiparata dalla competente autorità ecclesiastica al voto religioso, e in caso di necessità, sia sciolta senza difficoltà, e di questo, con la dovuta prudenza, tutto il popolo di Dio sia reso consapevole. E non temiamo, così facendo, di sminuire il valore della testimonianza del sacro celibato, davanti ai fedeli. Niente affatto! Quanto più la nostra consacrazione totale per amore del Regno dei cieli, de iure et de facto, sarà stata libera e liberata dalla coazione di qualsivoglia legge canonica, tanto più efficace sarà di certo la forza della testimonianza del celibato di fronte ai fedeli e al mondo. Del resto ciò dovrà essere davvero considerato per non pochi seminaristi un aiuto della consacrazione a vita, in cui entrare con cuore tranquillo e senza troppa ansia .E quand’anche, per questa nuova disposizione, non pochi dei nostri seminaristi volessero tornare allo stato laicale, chiediamo: non è meglio per loro e per la Chiesa che conducano una vita onesta nel mondo piuttosto di rimanere nel ministero conducendo un’esistenza veramente misera e trascinata tra tali e tanti peccati? Del resto, venerabili Padri, se davanti agli occhi abbiamo diversi esempi di congregazioni religiose (per esempio, i maristi e i lassallisti) dove l’indice di perseveranza è aumentato sempre più dopo che la dispensa dai voti è stata resa più facile, non c’è motivo di temere che il numero di quanti vogliono consacrarsi totalmente diminuirà necessariamente.

Secondo – Venerabili Padri, umilmente vi preghiamo anche che, tenendo conto delle concrete esigenze di quelle regioni, dove abbonda una moltitudine di battezzati del tutto privi di autentica evangelizzazione, per negligenza o mancanza di clero (porto solo l’esempio della mia diocesi, in cui ci sono solo otto preti per più di duecentocinquantamila abitanti), il nostro Concilio, che, prima di tutto, è pastorale, esamini attentamente il mandato del Signore: ‘Andate in tutto il mondo, predicate il Vangelo ad ogni creatura’ (Mc 16, 15). Considerato diligentemente il mandato divino, dunque, venerabili Padri, prestiamo accurata attenzione pastorale a questo affinché quanto prima formiamo diaconi animati da uno spirito veramente apostolico e affidiamo loro con piena fiducia l’ufficio dell’evangelizzazione a servizio della Chiesa. Ma – e oso dire anche questo – per lo zelo nei confronti di una venerabile e altamente lodevole tradizione, che però è un consiglio divino, non chiudiamo la strada alla possibilità di discutere ulteriormente – se il bene dell’evangelizzazione, che è precetto di Dio lo domandasse – se sarebbe opportuno o meno conferire l’ordine sacro del presbiterato anche ai diaconi sposati che, già sufficientemente provati dall’attività del fecondo ministero, fossero da tutti considerati veramente idonei. Il Sommo Pontefice giudicherà l’opportunità e il modo di discutere di questo. Ma a noi in nessun modo è permesso escludere a priori la possibilità di questa soluzione, senza dubbio perché non è possibile già ora giudicare definitivamente delle necessità pastorali del Popolo di Dio che non conosciamo ancora abbastanza, anzi neppure possiamo perfino conoscere. Di ciò, venerabili Padri, occupiamoci diligentemente affinché quelle parole di Cristo, davvero tremende ‘perché voi trasgredite il comandamento di Dio in nome della vostra tradizione?’, non ci debbano mai essere imputate. Ho detto. Grazie”.

[6]“Quando i sacerdoti siano del tutto rari, e solo in quei luoghi dove questa mancanza di sacerdoti è assolutamente sentita, non è forse il caso di pensare di promuovere al sacerdozio uomini di età matura, che abbiano dato una santa testimonianza di vita familiare e professionale? In questo modo, non si risponderebbe meglio alla necessità dei fedeli e al loro legittimo desiderio di godere di quei benefici che il ministero dei sacerdoti offre al popolo di Dio? Tuttavia, non ci deve illudere che un simile mutamento della disciplina tradizionale si possa realmente contenere entro i casi strettamente determinati da una vera e urgente necessità; e bisogna fare attenzione a non essere tentati di cercare, in questo stesso mutamento della disciplina, una soluzione apparentemente più facile alla difficoltà che oggi assilla la Chiesa, e cioè la mancanza di vocazioni. Comunque stiano le cose, perché una tale soluzione sia ragionevolmente presa in considerazione, è necessario che si abbia davanti agli occhi non solo il bene di questa o di quella Chiesa particolare, ma il bene generale di tutta la Chiesa. Si deve prendere in considerazione la possibilità che in futuro e in alcune determinate circostanze sia conferito il sacerdozio a uomini sposati? Con quali criteri?”.

Il passo conteneva il riferimento in nota alla Lettera di Paolo VI al card. Villot, segretario di Stato, sul celibato ecclesiastico, del 2 febbraio 1970, in cui il Papa, pur riaffermando con forza la tradizionale connessione tra celibato e sacerdozio contro le risoluzioni del Concilio pastorale olandese, che ne chiedeva il pieno superamento, affermava di non dimenticare “una questione che ci è stata proposta con insistenza da alcuni vescovi, dei quali noi conosciamo lo zelo, l’attaccamento alla venerabile tradizione del sacerdozio nella Chiesa latina ed ai valori tanto eminenti che esso esprime, ma anche le ansie pastorali di fronte a certe necessità, del tutto particolari, del loro ministero apostolico. In una situazione di estrema carenza di sacerdoti – essi ci domandano – e limitatamente alle regioni che si trovino in simile situazione: non si potrebbe forse considerare l’eventualità di ordinare per il sacro ministero uomini di età già avanzata, che abbiano dato nel loro ambiente la buona testimonianza di una vita familiare e professionale esemplare?”. Paolo VI esprimeva le proprie perplessità in proposito: “Non possiamo dissimulare che una tale eventualità solleva da parte nostra gravi riserve. Non sarebbe, infatti, tra l’altro, un’illusione molto pericolosa il credere che un tale cambiamento della disciplina tradizionale potrebbe, nella pratica, limitarsi a casi locali di vera ed estrema necessità? Non sarebbe poi una tentazione, per altri, di cercarvi una risposta apparentemente più facile all’insufficienza attuale di vocazioni?”. Non chiudeva però la porta all’ipotesi: “In ogni caso, le conseguenze, sarebbero così gravi e porrebbero delle questioni talmente nuove per la vita della Chiesa, che dovrebbero, semmai, essere previamente e attentamente esaminate, in unione con noi, dai nostri fratelli nell’episcopato, tenendo conto davanti a Dio del bene della Chiesa universale, che non si potrebbe disgiungere da quello delle Chiese locali”.

[7]Il suo intervento fu assai articolato: “I presbiteri realizzano la propria identità nella profonda unione tra ministero e vita (Presbyterorum Ordinis, n. 14); il vincolo sacerdotale consiste nell’esercizio della carità pastorale. Se le situazioni pastorali si modificano, anche l’identità sacerdotale è sfidata e posta in questione. In Brasile oggi la maggior parte dei sacerdoti lavora in strutture parrocchiali, in comunità numericamente immense, le cui esigenze e attese superano ogni umana possibilità del presbitero, che per lo più deve provvedere a esse da solo. Queste situazioni richiedono una urgente ristrutturazione pastorale. Perché la salus animarum è la legge suprema dell’azione pastorale, nel corso della storia, la Chiesa ha saputo con prudenza e coraggio procedere alla ristrutturazione dei suoi quadri ministeriali. Così, per esempio, nella Chiesa di Gerusalemme vennero eletti i 7 diaconi; nel V secolo vennero create le parrocchie. Oggi nelle Chiese del Terzo Mondo si avverte un mormorio analogo a quella di Gerusalemme, perché esse non si sentono rispettate nelle propri situazioni pastorali, essendo inquadrate in modelli caratteristici delle Chiese del Primo Mondo, dove c’è ancora un numero sufficiente di vescovi e di sacerdoti per i bisogni delle comunità, in particolare per quanto concerne la celebrazione eucaristica, nelle quali si raduna la comunità cristiana. In Brasile ci sono parrocchie di 50 e perfino 100.000 abitanti, con un parroco che, pur celebrando 5 o più Messe ogni domenica, non riesce ad assistere se non un piccolo gruppo di comunità; le altre rimangono a lungo prive dell’eucaristia e diventano solo ‘comunità della Parola’, quasi alla pari di tante sette che spuntano dappertutto, specialmente per la mancanza di assistenza pastorale. È il momento storico di pensare a una ristrutturazione del servizio pastorale, nella forma seguente: i parroci potrebbero essere considerati ‘vicari episcopali’, assumendo così ancor di più il ministero della sintesi, del coordinamento e dell’animazione, e cessando di essere semplici celebratori di Messe moltiplicate. Ciò risponde pure agli auspici del Documento di Puebla (n. 631; 644; 650), nella prospettiva di fare della parrocchia il centro promozionale di servizi che le comunità minori non possono garantire. Il parroco avrebbe funzione di supervisore e di animatore dello sviluppo di una molteplicità di nuovi ministeri nelle comunità minori che costituiscono la realtà della parrocchia. Si studi pure seriamente, senza paura di tabù, la necessità e possibilità di ordinare presidenti dell’eucaristia per le numerose comunità o viri probati presenti e operanti in esse. Questo studio è reso necessario per motivi pastorali, dato che non ci sono previsioni umane che nelle prossime generazioni sorgano sufficienti vocazioni autenticamente celibatarie per il servizio pastorale di tante comunità ecclesiali. Queste sono in pericolo di cadere in mano alle sette, dal momento che non celebrano l’eucaristia, culmine e fonte della vita cristiana. Del resto l’identità del sacerdote è scossa anche quando si sente impotente e frustrato dinanzi alle sfide di una parrocchia con un numero eccessivo di abitanti, praticamente irraggiungibili per mancanza di clero. Che le Chiese del Centro (ossia del Primo Mondo) ascoltino il mormorio delle Chiese della periferia (Terzo Mondo), perché insieme possano trovare il cammino della ristrutturazione pastorale e  garantire così meglio l’identità del presbitero nel rispetto delle differenti situazioni”.

[8]Famiglia cristiana, 24/10/1990.

[9]Nel 1973, con la sua equipe di formazione, nel documento “La missione evangelizzatrice. Verso una Chiesa aymara”, sostenne: “Indubbiamente si è fatto un passo avanti verso l’aymarizzazione della Chiesa con il movimento dei catechisti e dei diaconi. Questo però non basta. La comunità ecclesiale ha la necessità di esprimere la sua unità nel vincolo dell’eucaristia ed è necessario il presbitero aymara. Un presbitero che, senza dubbio, rivestirà caratteristiche diverse dalle nostre. Potrà essere locale, in quanto il suo ministero potrà essere ristretto alla comunità nella quale è sorto; oppure, itinerante, in quanto il suo ministero sarà quello di promuovere l’unità tra gli altri presbiteri locali e la loro formazione. Questo presbitero sarà celibe o sposato, in conformità col suggerimento dello Spirito e del suo carisma. Entrambi questi tipi di presbitero sono necessari alla Chiesa aymara. E il nostro lavoro pastorale deve orientarsi verso la maturazione di questo duplice sacerdozio”.

[10]Les Éditions de l’Atelier/Les Éditions ouvrières, Paris, 2002. Nell’intervista mons. Ruiz ripetè: “A proposito dell’ordinazione dei sacerdoti si pone un vero problema. Nelle comunità indigene d’America, dall’Alaska alla Patagonia, la maturità della persona non si misura in base all’età, ma allo stato civile. Un individuo di 28 o 30 anni che sia celibe è considerato un bambino”. E per esemplificare raccontò questo episodio: “A Oxchuc un uomo di 28 anni, catechista e dirigente dei catechisti, volle prendere la parola in una riunione in cui ci si chiedeva che fare con l’immagine del santo locale, danneggiata da una perdita d’acqua nel tetto della chiesa. I pareri erano divisi tra chi intendeva mandare l’immagine a far riparare a San Cristobal e chi voleva che il restauratore lavorasse in loco. Si trattava delle relazioni coi santi secondo costume e del modo di agire in passato. Quell’uomo voleva proporre una lettura credente del tema, ma quando aprì bocca, lo interruppero: ‘Tu, bambino, perché parli qui?’, gli disse un anziano. Era un uomo di 28 anni, capo dei catechisti, certo, ma era celibe. Si sedette e tacque. Il celibe mai sarà accettato come guida della comunità. E l’incarnazione della Chiesa nelle culture indigene deve accettare questa concezione della maturità che attraversa l’America da nord a sud”.

[11]Like his brothers ans sisters. Ordaining community leaders, Claretian publications, Quezon City, 1998; (con Paul M. Zulehner), Priests for tomorrow. A plea for teams of “Corinthian priests” in the parishes, Claretian publications, Chicago, 2003 (ed. brasiliana, con introduzione di Antônio José de Almeida, Padres para amanhã. Uma proposta para comunidades sem eucaristia, Paulus Editora, São Paulo, 2007; ed. italiana, Preti per domani. Nuovi modelli per nuovi tempi, Emi, Bologna, 2009); Teams of elders. Moving beyond “viri probati”,  Claretian publications, Quezon City, 2007 (ed. spagnola, con saggio di Antônio José de Almeida, Equipos de ministros ordenados. Una solución para la eucaristía en las comunidades, Herder editorial, Barcelona, 2010); (con introduzione di Juan Antonio Estrada Díaz) El altar vacío. Un libro ilustrado para debatir sobre la falta de curas,  Herder editorial, Barcelona, 2010.

[12]“Ci provoca profondo dolore vedere migliaia delle nostre comunità escluse dall’eucaristia domenicale. La maggioranza di loro hanno la grazia di celebrare il memoriale della passio, morte e risurrezione del Signore solo una, due o tre volte all’anno. Il Signore, alla vigilia della sua morte, non ci diede un buon consiglio, ma un mandato preciso: ‘fate questo in mia memoria’ (1 Cor 11,24; Lc 22,19). Il decreto Presbyterorum Ordinis del Concílio Vaticano II dichiara che l’eucaristia è fonte e, al tempo stesso, culmine di tutta l’evangelizzazione (cfr. PO 5). ‘Non è possibile che si formi una comunità cristiana se non assumendo come radice e come cardine la celebrazione della sacra eucaristia, dalla quale deve quindi prendere le mosse qualsiasi educazione tendente a formare lo spirito di comunità’ (PO 6). Anche la Costituzione dogmatica Lumen Gentium parla dell’eucaristia come ‘fonte’ e ‘apice di tutta la vita cristiana’ (LG 11). Diventa urgentemente necessario creare nella nostra Chiesa strutture affinché quel 70% delle comunità oggi escluse dalla celebrazione eucaristica domenicale possano partecipare alla ‘frazione del pane’ (At 1,42), al ‘sacramento di amore, segno di unità, vincolo di carità, convito pasquale’ (SC 47)”.

[13]Castagnaro M. (a cura di), São Gabriel: la più povera. Intervista con il vescovo Edson Tasquetto Damian, in Il Regno-attualità, n. 22/2012.

[14]cfr. Evangelii Gaudium n. 116-118, 129.

[15]Giovanni Paolo II, Lettera apostolica “Novo Millennio ineunte” del 6 gennaio 2001, n. 40.